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Vie e quartieri

Via Rubini

Cortemaggiore mi ha visto perlopiù bambina.
Viarubiniventicinque, risuona nella mia mente come un campanello che risveglia memorie, e rivedo il portone d’ingresso e il corridoio al piano terra che portava al cortile, sì, quello dei giochi bambini di tutti noi piccoli del numero 25. Il cortile coi fiori del nonno , il rosso dei gerani e il celeste del plumbaco; gli occhi vigili del nonno sempre attenti che non ci facessimo troppo male e che il nostro pallone non danneggiasse le piante. Corrado ed Elena, Paola e Marco, Silvia ed io, i garage erano le nostre stanze da gioco, teatro per gli spettacoli per i genitori, infiniti giri in bicicletta, palla prigioniera, palle di cartapesta… ginocchia sbucciate sul cemento ruvido di quel cortile, e uccellini caduti dai nidi da nutrire e salvare da una sorte avversa.


L’orizzonte si allargava quando ci veniva permesso di giocare nella via con nuovi compagni e nuovi giochi: l’elastico alle caviglie, al polpaccio, alle ginocchia, sempre più difficile… e il giro del palazzo con la bici , via San Lorenzo e via Libertà, passando davanti a Narboni che vendeva acqua e bevande e vino, risento quell’odore di cantina che si respirava all’interno.
Rivivo il calore della mia casa quando nelle sere d’inverno scrutavo la nebbia attraverso i vetri della finestra. E l’incanto della vigilia del 13 dicembre quando aspettavamo con grande emozione il passaggio di Santa Lucia. La magia di quella notte nel sentire la campanella nella strada generava in me paura e felicità insieme che culminavano nel rinnovato stupore di trovare al mattino, ogni anno, i doni tanto attesi e desiderati.
Questo e molto altro vorrei raccontare della mia permanenza a Cortemaggiore in quegli anni. Mi limito a ciò che ricordo del periodo trascorso in via Rubini prima che la vita mi conducesse a vivere lontano, nelle Marche, dove con fatica ho imparato a lasciare andare il passato e conservarne con grande tenerezza i ricordi.

DM

Gli strettini

A Cortemaggiore, per noi bambini degli anni 70,  l’estate trascorreva spensierata in strada, sotto casa. Liberi di gestirci , di inventare giochi e situazioni, senza  adulti accanto a suggerirci continuamente cosa fare e come fare. Abitavo negli Strettini in quegli anni e Via Ziotti era piena di vita e di attività, di luci e di rumori. Ci passo ancora ogni tanto,  per riscoprire qualche antica sensazione,  e mi rattrista vedere alcune case disabitate, con gli infissi rovinati dal tempo e dall’abbandono, le saracinesche arrugginite abbassate sui negozi  che un tempo illuminavano la via, ora troppo buia e silenziosa. Provenendo da Via Garibaldi, imboccando gli Strettini, sulla sx c’era la sartoria di Gualazzini,  mi sembra ancora di sentirlo il rumore delle macchine da cucire, la musica della radiolina ed il brusio delle sarte che sotto la supervisione,  prima di Stefano, poi di  suo figlio Gianni, confezionavano abiti da uomo su misura ,  di ottima qualità. Noi bambini,  afferrando le grate delle finestre ci arrampicavamo sul muro per sbirciare dentro, salutare e poi scappare divertiti, qualche volta anche con le ginocchia grattate. Di fronte c’era il negozio di fiori delle sorelle Filiberti , due donne sempre molto silenziose e all’apparenza severe che avevano allestito il negozio in uno stanzino  angusto e buio , piuttosto triste, ma che d’estate si riempiva di colori dentro e fuori;  vasi di fiori ovunque, sul marciapiede, sugli scalini e  appesi alle inferriate delle finestre. Proseguendo in direzione dei giardini, sul lato sx della via c’era il negozio di Pierino il barbiere e accanto il negozio di elettrodomestici di Dante Ghizzoni, un uomo robusto e di poche parole che aveva l’abitudine di riposare in macchina nella pausa pranzo. Ci divertiva restare a guardarlo mentre,  abbandonato sul sedile davanti,  russava sonoramente con la bocca spalancata.  In fondo alla via, poco prima dell’asilo Verdi, c’era il negozio di parrucchiere di Rosanna e Fernanda dalle cui finestre si udiva incessante il  rumore dei phon misto alle chiacchiere e alle risate delle clienti. In mezzo a tutte queste attività c’eravamo noi,  schiamazzanti bambini felici e un po’ selvaggi ,  in strada dalla mattina alla sera ad esasperare i lavoratori, in particolare il povero Pierino  che vedeva continuamente minacciata la sua vetrina dai nostri palloni e che spesso usciva brandendo il rasoio a mo’ di coltello, dicendo  con tono pacato ma deciso “ Des cul balon lè val taj “,  ma noi sapevamo che le sue minacce in dialetto erano bonarie e,  dopo una breve pausa di qualche minuto, ricominciavamo a giocare.  Diverso era quando la minaccia era scandita in italiano, voleva dire che la sua pazienza era davvero giunta al limite e se riusciva a prenderci il pallone, non potevamo far altro che sperare che si trattasse solo di un sequestro. Per riscattare il pallone sapevamo infatti cosa bisognava fare: pulire la vetrina o spazzare  i capelli appena tagliati e rimasti sul pavimento . Povero Piero se n’è andato anche lui in questo anno orribile, ed il dispiacere è stato grande. Se ne va con lui una parte della nostra infanzia spensierata, incontrarlo ogni volta davanti al nuovo negozio sotto i portici, voleva dire ridere ancora  del suo tormento per i nostri palloni ed ogni volta sentirlo  sospirare “ ah ragass im fat tribulà abota ” . 

Elisabetta Corti

Via Libertà

Via Libertà è sempre stata una via particolare del nostro paese soprattutto per chi, come il sottoscritto , ha trascorso lì i primi ventisette anni della sua vita. Da una parte i “Trai”, dalla parte opposta i palazzi popolari figli del boom edilizio dei primi anni 50. E dietro questi l’aperta campagna. Anche la strada a differenza delle altre del centro storico era molto più ampia, lunga e diritta e per noi ragazzi era un campo giochi ideale viste le poche macchine che circolavano in quegli anni. Quante partite di pallone, con i nostri maglioni che delimitavano le porte e quante sgridate dagli abitanti soprattutto anziani dei palazzi. La larghezza della strada permetteva anche la disputa di altre discipline, come atletica e ciclismo, mentre gli inverni lunghi e freddi di quei periodi ci davano anche la possibilità di praticare sport invernali tipo bob o slittino utilizzando cartoni che con cura conservavamo proprio per questa evenienza. Il sale a quei tempi era utilizzato solo per condire gli alimenti, e le strade potevano restare ghiacciate per settimane, per la gioia di noi ragazzi (meno per quella degli adulti…) Il campo giochi terminava però al cartello “Zona del silenzio” a pochi metri dall’ ospedale. Mi ha sempre affascinato quel cartello, pensavo che all’ interno non si potesse né giocare ma neppure parlare troppo forte e spesso i ragazzi che abitavano in quella zona venivano in trasferta dalle nostre parti. Io vivevo in uno dei due primi palazzi costruiti, vicino alla Fabbrica e questo era spesso oggetto di discussione con gli altri ragazzi che vivevano nei palazzi costruiti in seguito e sicuramente rifiniti meglio. Solamente il fatto che noi avessimo le persiane mentre gli altri avevano le tapparelle era un problema non di poco conto…Non mancava una certa rivalità tra le due zone ma anche tra i ragazzi dei trai e quelli dei palazzi. Quante battaglie a palle di neve nascosti tra i rottami agricoli che riempivano il “campo di Baderna” di fronte al nostro palazzo e dove si vociferava la presenza di serpenti e topi di dimensioni enormi. La sera però arrivava la tregua, quando, soprattutto durante l’estate ottenevamo il permesso dai nostri genitori di attraversare la strada ed andare ad ascoltare le favole della Peppina. Chi con la sedia portata da casa, chi accovacciato per terra, ci stringevamo intorno a lei mentre imperterrita continuava a sferruzzare a maglia per ascoltare storie fantastiche che ci facevano volare verso castelli fatati o battaglie contro draghi. In quelle sere calde la via era viva e brulicava di gente. Chi come noi aveva davanti all’entrata una piccola rampa di scale restava a prendersi l’ultimo fresco della sera prima di entrare nel forno di casa. Gli adulti parlando tra di loro mentre noi ragazzi ci gustavamo l’ultimo ghiacciolo impiastricciando di vari colori i gradini di ingresso. Gli altri palazzi sopperivano alla mancanza di gradini con le sedie portate da casa e davanti ad ogni entrata sentivi le voci dei giocatori e delle giocatrici di briscola impegnati in partite all’ultimo sangue. “ Dagli un carico”, “ Vai liscio”… Poi d’improvviso calava il silenzio, rotto solo dall’ abbaiare di qualche cane randagio che l’accalappiacani non era ancora riuscito a catturare e naturalmente il tifo di noi bambini era per il cane.. Passando a trovare mia madre in quel palazzo di Via Libertà 39 mi rendo conto che nessuno dei vecchi condomini è rimasto. Molti appartamenti sono rimasti vuoti con le persiane chiuse e con il cartello “vendesi” attaccato fuori. Un condominio negli anni ‘60 era una faccenda ben diversa rispetto ad adesso, c’erano moltissimi bambini ed erano rappresentate diverse generazioni, dalla prima infanzia alla giovinezza ma con lo scorrere del tempo non è mai più stato così. A quei tempi un condominio era un piccolo mondo coeso, ci si conosceva tutti e ognuno aveva le sue caratteristiche: uno era celebre per il pollice verde, l’altro per l’indiscussa abilità nei lavoretti, su alcuni potevi sempre contare e puoi star certo che c’era sempre qualche mamma o qualche nonna che preparava ottimi dolci. Oramai tutto è ben diverso, di coeso non c’è più nulla, e magari fosse solamente una questione di vetustà di infissi….

Mario Cavalli