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Fiera di San Giuseppe

19 Marzo, Fiera di San Giuseppe.

Qualche giorno prima di questa fatidica data (a quei tempi San Giuseppe era considerata festività e la fiera si svolgeva sempre in quel giorno) noi ragazzi eravamo effervescenti ed emozionati perché arrivavano le giostre. Grandi carovane riempivano le strade vicine alla piazza di camion, roulotte e bancarelle, pronte da montare con quei gioielli del divertimento. Negli anni 60 non c’erano molte giostre a disposizione. C’era quella dei più piccoli, fatta da miniature di macchine, carrozze, cavalli e motociclette. Girava per circa un minuto, poi il momento più atteso: la gara per chi riusciva a prendere il codino dello scoiattolo. “Dai bambino, prendi il codino”. Quel codino era il grande obbiettivo da raggiungere e dovevi farcela a tutti i costi. Pensavi di essere diventato un professionista dopo un paio di vittorie, fino a quando il giostraio voleva fartelo credere. Bastava che tirasse la corda un po’ di più quando passavi tu e il codino era irraggiungibile. Per il cassiere era solo il suo lavoro tirare la corda, per me e per gli altri miei amici era il banco per metterti alla prova. La sfida ha sempre fatto parte della nostra vita di ragazzi,
qualunque cosa ti proponessero di fare avevi bisogno di crearti dei rivali con i quali misurarti Quella giostra ti metteva a dura prova, non bastavano più la velocità e i riflessi o l’estensione massima del corpo o del braccio, perché gli avversari erano diventati troppi. Oltre a quelli che tentavano come te di prendere il codino, c’era anche il giostraio e con lui la gara era più dura. Data l’importanza dell’obiettivo i più scafati di noi avevano iniziato ad usare altre tecniche, come quella di far credere di essere disinteressati e anche un po’ imbranati, per poi, quando il codino era a portata di mano, schizzare come una pantera sulla preda, col conseguente sgomento del giostraio che si sentiva fregato da un bambino. E’ durata pochi anni la sfida con il codino perché crescendo le preferenze di noi ragazzi sono passate su altri tipi di giostre. Ho sempre pensato che uno dei passaggi
fondamentali tra l’età fanciullesca e quella adolescenziale fosse proprio il momento del cambio di giostra. A dodici, tredici anni era l’autopista che ci attraeva più di tutto. La sfida era quella di tamponare l’avversario all’improvviso per ridicolizzarlo agli occhi delle ragazzine che, a bordo pista, facevano da giudice e da premio finale “Giù il gettone” era questa volta il mantra cantilenante del cassiere. Per i più grandi ma anche per i più nostalgici, la sfida con il codino si rinnovava sul
calcinculo dove i ragazzi più audaci volavano allacciando grovigli d’alta acrobazia. Un giro durava quanto la canzone di accompagnamento. Poi con gli anni sono arrivate giostre sempre più al passo con i tempi, gli aeroplani, il tagadà (molto apprezzato anche dai dentisti di quei tempi) e tanto altro ancora, anche se nessuna di queste credo abbia potuto soppiantare il fascino dell’autopista. A contorno delle giostre c’erano però altre attrazioni forse meno tecnologiche ma altrettanto fondamentali per noi. Lo “svizzero”, ad esempio, con la sua rudimentale roulette dove i ragazzi più grandi perdevano immancabilmente la paghetta della settimana (e gli adulti anche qualche parte di stipendio). “Lo svizzero paga sempre” era il suo grido di battaglia, peccato che a pagare fossero quasi sempre i giocatori… Un personaggio che mi ha sempre affascinato era un vecchietto (almeno a noi sembrava) dai tratti somatici nordafricani che immancabilmente ogni anno si posizionava con i suoi miseri attrezzi del mestiere accanto all’autopista, la zona sicuramente di maggior passaggio. Una tavola di legno, probabilmente una parte di un vecchio biliardino dove collocava una decina di birilli, una stecca ,un pezzo di corda di tapparella sporca e consunta e un fil di ferro. Sopra alla tavola c’era poi un ripiano dove veniva posizionato l’ambito premio: bottiglie di spumante che non
credo avessero mai avuto la fortuna di aver visto un acino d’uva. I giochi erano essenzialmente due: cercare con due colpi di stecca di far cadere i birilli situati in posizione strategica sulla tavola di legno oppure riuscire a sfilare il fil di ferro dalla corda di tapparella precedentemente avvolta dall’uomo centrando la fessura giusta. Sembrava una cosa da nulla, visto la facilità con la quale il vecchietto ci riusciva ma non ricordo di aver mai visto in tutti quegli anni qualcuno che fosse riuscito a sfilare la corda. Qualche strike dei birilli negli anni sono riuscito a vederlo e mi sembra di vedere ancora adesso il sorriso trionfante del vincitore mentre si allontanava con la bottiglia di spumante, probabilmente meno costosa delle poche decine di lire che aveva pagato per giocare. Quanti improperi da tutti quelli che non riuscivano nell’intento, con il vecchietto sempre imperturbabile che continuava a mostrare come fosse un gioco da ragazzi riuscirci. I pochi spiccioli portati via ai malcapitati non potevano certo paragonarsi a quelli estorti con il gioco delle tre campane. Noi ragazzi ci chiedevamo sempre, quando osservavamo da lontano la truffa, come negli anni 70 si poteva ancora farsi fregare in questo modo. Dopo 50 anni non mi pare sia cambiato molto…E che dire delle bancarelle con il classico zucchero filato e il torrone con le nocciole ? Ne ricordo ancora oggi il sapore e il profumo. In questi anni la mia generazione ha continuato a crescere cercando di prendere il codino. Anche se le giostre cambiavano ogni volta, il codino era sempre lo stesso e anche il giostraio ormai ci conosceva molto bene. Ma non siamo più riusciti a fregarlo, anzi, il più delle volte è lui che ha fregato noi…

Mario Cavalli

I miei anni a Cortemaggiore

A Cortemaggiore ho vissuto la magia della mia adolescenza.

Tornavo, era come andare in paradiso.Partivo,ogni volta uno schianto.

Vivevo altrove, ma i miei amici erano tutti a Corte. Nel tempo della vita in cui gli amici sono sponde da cui scrutare nuovi orizzonti o ripari nelle tempeste. La domenica mattina ci radunavamo sul sagrato della chiesa. Chi usciva da messa, chi arrivava forse da casa. Passavamo lunghi pomeriggi e intere serate a chiacchierare : all’Oratorio dove si formava il tavolo e si aggiungevano tavoli allargandosi la compagnia, sulle panchine della piazza o dei giardini e sempre a parlare, scherzare , ridere di non so più cosa per ore ed ore.

Poi arrivarono gli anni delle feste che organizzavamo perché fossero perfette. Ballavano a ritmo della discomusic o dei lenti che si aspettavano sperando poi con trepidazione che proprio quel lui ci invitasse a ballare. Ecco, il paradiso! Ricordo il salone dell’Oratorio a Capodanno nella penombra delle luci psichedeliche con G. e K. che, ammiratissimi, interpretavano More than a Woman a leggeri passi di danza. Poi tutti insieme e a coppie YMCA dei Village People. Il primo gennaio la festa continuava nel pomeriggio, per finire bibite e panettoni e perché ciò che si fa il primo dell’anno

si farà poi tutto l’anno.

Quegli anni sono scolpiti nella mia memoria .Intrisi di emozioni. Indelebili.

Silvia Mancinelli

Carnevale

Il Carnevale non è mai stata la mia festa preferita, almeno dal momento in cui mi sono reso conto  che le clave di plastica imbottite con la sabbia o la carta di giornale bagnata potevano fare molto male…Eppure c’era stato anche un periodo dove  a noi bambini bastava una maschera di cartoncino stampato, con le sembianze di personaggi delle favole come Pinocchio, il Gatto e la Volpe o la Fata dai capelli Turchini. Avevano un elastico che si rompeva subito, due piccoli fori sugli occhi e sulla bocca, sostituiti qualche anno dopo da maschere di plastica che ti avvolgevano il viso per intero , solo che con il vapore e il sudore si riempivano di umidità e perciò, non riuscendo a respirare, venivano accantonate molto presto. Ma il vero pezzo “cult” dei nostri carnevali era il vestito da Zorro. Alle elementari la mia classe contava una ventina di Zorro, mentre la sezione femminile una ventina di Fatine (l’equivalente femminile del costume da Zorro). Devo confessare a distanza di tanti anni che Zorro non mi stava molto simpatico, questa cosa che tutti fossero Zorro con gli stessi spadini flessibili, gli stessi baffetti fatti con la matita del trucco della mamma e gli stessi cappellini mi portava a preferire l’indiano. Poi naturalmente non mancavano cowboy,  moschettieri e anche qualche Pierrot, sempre molto immedesimati nelle loro espressioni tristi visto che , obbligati probabilmente dalla mamma a vestirsi in quel modo, venivano puntualmente presi in giro dai ragazzi più grandi. Quante corse e inseguimenti nei corridoi dell’ oratorio, tra coriandoli, stelle filanti e bombette puzzolenti. Naturalmente il vincitore dell’immancabile concorso era sempre un costume originale, spesso preparato a casa dal genitore proprio per l’occasione.  I nostri costumi da cartoleria difficilmente potevano ambire a qualche premio…. Poi con gli anni gli Zorro, i Cowboy o i Moschettieri, venivano accantonati in cantina o passati eventualmente al fratello o alla sorella più piccoli.  Per i ragazzi più grandi era sufficiente mettersi addosso quello che si riusciva a raccattare dentro i bauli delle soffitte e bastava un mozzicone di legno bruciacchiato per disegnare i baffi o la barba finta sul viso, con un tabarro e un cappellaccio che invece di far divertire mettevano paura ai più piccoli. E i coriandoli e le stelle filanti venivano sostituite dalle clave di plastica che i ragazzi più “vivaci” riempivano di sabbia o carta di giornale (nei Carnevali più freddi c’era anche la variante neve….).  In quei periodi vigeva una specie di coprifuoco e non era molto salutare girare per le vie del paese. Ognuno di noi penso che nella sua gioventù sia stato vittima di un inseguimento da parte di “focosi” coetanei  che volevano assestare qualche colpo di clava e che abbia ricevuto almeno una volta una bastonata in testa, sperando sempre di essere colpito da una clava vuota. E le ragazze non potevano pensare di essere immuni da tutto questo anche se per loro c’era l’incubo della bomboletta di schiuma da barba (dopo tanti anni ho ancora il ricordo dell’aria che sapeva di schiuma).  Nessuna ragazza in quel periodo era così ingenua da indossare una pelliccia e spesso uscivano accompagnate da qualcuno. Naturalmente  i giubbotti da portare in lavanderia  erano parecchi…  I nostri non erano sicuramente Carnevali sofisticati come quelli della vicina Busseto, con la maestosità dei loro carri allegorici, ma sicuramente molto meglio di quelli attuali, dove mi pare che più per i figli Carnevale sia una festa per i genitori. Questo è il periodo dei bambini agghindati pronti a finire su Facebook, Instagram e Twitter. Mi sembra ormai una festa che non dice nulla, che ha dei contorni color seppia, come quelli sbiaditi di una vecchia foto

Mario Cavalli

Ricordi di nonna, anzi bisnonna !

Mia nonna, anzi la mia bisnonna, era nata nel 1890 e quella data mi aveva sempre fatto un certo effetto. Aveva visto la morte di Verdi, l’assassino di Re Umberto, due guerre mondiali, la Belle Epoque, la nascita del fascismo e la sua caduta, il primo ed il secondo dopoguerra e tutta l’evoluzione tecnico e scientifica del ventesimo secolo. Per un bambino come me, affascinato dalla storia contemporanea, era un piacere ascoltare dalla sua voce avvenimenti che lei aveva vissuto in prima persona. Mio nonno, anzi il mio bisnonno, era addirittura del 1880, ma essendo morto nel 1964 ho ricordi molto confusi di lui. Una vita dura quella di mia nonna, come per tante donne in quegli anni, originaria della Romagna, aveva seguito suo figlio frate (mio zio padre Teofilo) nel suo peregrinare nei conventi del Nord Italia, prima Lugo di Romagna, poi Genova, con i primi bombardamenti dal mare e quando mio zio fu trasferito nel Convento di Cortemaggiore, uno sconosciuto, almeno per i miei nonni,  paesino della Pianura Padana ancora lontano da diventare Supercortemaggiore, aveva preferito tornare nei suoi luoghi di origine, sulle colline sopra Rimini. Ma nei primi mesi del 1945, con la linea Gotica che scatenava la sua furia proprio sulla Romagna, aveva intrapreso a piedi con un carretto trascinato da mio nonno e con sopra mia madre bambina e mia zia Teresina, l’ennesimo viaggio della speranza, questa volta verso Cortemaggiore, avendo saputo da mio zio frate che in quelle zone la guerra aveva picchiato meno. Un viaggio durato settimane, attraversando tutta la Via Emilia, sotto ai continui bombardamenti e ai tanti pericoli di quel periodo buio. Non mi sarei mai stancato di ascoltare da mia nonna o da mia zia la storia di quel viaggio che per un bambino come me, e non solo, aveva il sapore di un’avventura ai confini della realtà. E così una perfetta “adzora” romagnola si era trovata catapultata nel centro della Pianura Padana. Nella stessa Regione di partenza ma con differenze non certo trascurabili per lei. Niente mare, niente dolci colline dell’ entroterra, ma solo una piatta distesa di campi, intervallati da torrenti e canali di irrigazione. E la nebbia, fino a quei tempi per lei sconosciuta…Ma il problema maggiore almeno agli inizi era stata sicuramente la cucina. Quante piadine ho mangiato da bambino, purtroppo quasi sempre con la verdura…Poi piano piano l’integrazione in questa nuova realtà che andava di pari passo con l’espansione del paese dopo la scoperta del petrolio. Mio nonno aveva imparato a menadito  la strada che portava all’ Osteria di Santi, il Convento dei frati era per noi un importante punto di riferimento visto che mio zio era il responsabile del Collegio francescano e mia nonna aveva anche iniziato a cucinare i tortelli di erbetta e gli anolini (purtroppo ai pisarei e ai chisolini non ci siamo arrivati…). Il tipico accento romagnolo non lo aveva perso naturalmente, ma si sentiva ormai una vera magiostrina tanto che alla sua morte non volle tornare in Romagna accanto ai suoi genitori e alle sue sorelle,  ma riposare nel cimitero di quel  paese che le aveva offerto una nuova opportunità di vita.

Mario Cavalli

Nella foto la mia bisnonna con accanto mio zio Padre Teofilo e mia nonna, purtroppo mai conosciuta perché morta nel 1940 poco dopo la nascita di mia madre.